domenica 17 luglio 2011

Funambolismo forse

Sono pronto, tutto è stato preparato con la massima cura, tutto ciò che precede il grande rischio è stato preparato nei dettagli, tutto quanto era calcolabile è stato calcolato: la corda è tesa al massimo per rendere minime le oscillazioni, i tiranti sono ben saldi, i battiti hanno il ritmo dei passi di chi non ha premura. Sto per abbandonare il quadrato di cemento di cui le piante dei piedi conoscono ogni minima irregolarità, per raggiungerne un altro, nuovo ed ignoto.
Tra la partenza e la meta una fila di passi allineati sospesi nel vuoto. Basta adagiare i piedi sulla fune per compiere il percorso, non c'è modo di sbagliare strada: tra l'origine e la destinazione c'è solo il percorso più breve; basta appoggiare il tallone alla punta; sono sufficienti meticolosità e precisione: non un grammo da un lato più che dall'altro.

E' una giornata nebbiosa, ma non so dire se il cielo sia nuvoloso, perché non so più distinguere cosa sia cielo. La terra sì, è quella laggiù che scorgo brulicare nella frenesia dell'assicurarsi una tranquillità che sempre scarta. Ma l'aria... l'aria tra la terra e me, velata di bianco, non è forse già cielo? Poco importa in fondo il nome da dare alla trasparenza lattea che mi accingo a trapassare, seguendo la linea che collega queste due parti solide: dall'altra parte due puntini neri agitano le braccia. Dietro di me il sorriso più bello - uno solo che li racchiude tutti - senza muovere le labbra, senza emettere suono, dice ora è tempo. E scioglie l'abbraccio, decretando inutile il restare, inavverabile ciò che non è stato avverato. Ruoto gambe e tronco, ma la testa non riesco a girarla. Finalmente recido lo sguardo e lo volgo in avanti parallelo al filo nero.



Ecco ci siamo: tengo l'asta del bilanciere con forza, le palme rivolte verso l'alto e le dita che le si avvolgono attorno, equidistanti dalla tacca che ne segna il centro.
Conosco bene quello che sto per fare, i termini esatti del gioco che mi appresto a giocare: per anni mi sono allenato a questo, per anni ho affilato il mio corpo per camminare sul filo di lama. Ho imparato a fermare la mente giocolando in essa sette palline della materia del sogno, ad ottenere l'immobilità attraverso il ritmo di un movimento circolare invisibile all'esterno.
Conosco l'unica sensazione di durezza del cavo che sostiene, riflettendo il peso del corpo tagliato in due da un piano immaginario; la sensazione di solido sotto la pianta dei piedi strettamente consecutivi, passaggi stringenti di un ragionamento ferreamente logico. Staccando il piede dal cornicione e appoggiandolo sulla fune tesa sto per proferire parola. La prima di un discorso da dipanare in linea retta allineando i passi.

Non c'è gran differenza tra ciò a cui mi accingo e il comune camminare: il solido è sotto la pianta dei piedi e la sensazione intorno è di impalpabilità. Unica novità il costo di un passo falso.

Tutto era partito così, in fondo: “cos'è un po' di dolore al cospetto dell'inizio di un sogno”. E il sogno era nato in anticipo rispetto al suo materializzarsi, nella piena sprezzante indifferenza tra l'atto e la potenza. Che ridere la materia!

Forse è follia. O follia è lasciar consumare il supremo tesoro senza osare rischiarlo per il sogno? Io scelgo di giocarlo così, in un solo studiatissimo gesto; scelgo di essere disposto a pagare il prezzo umanamente più alto in favore dell'inutile bellezza.

Il piede dal bordo del tetto alla fune.

M'illudo così di vincere anche perdendo.